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The stream of the Arkage

3 errori da evitare quando pensiamo agli eSports

Picture of Andrea Ciulu

di Andrea Ciulu

11 maggio 2020

gaming eSports

Perché oggi gli eSports sono diventati un fenomeno così importante? Molti indicano - giustamente - delle ragioni tecnologiche: connessioni più veloci e computer più potenti permettono a più persone di giocare.

Ma uno sport non diventa grande senza un’audience altrettanto grande. Ed è qui che entra in gioco l’altra motivazione: quella culturale. Il gaming è ormai diventato un pilastro della nostra cultura e ci coinvolge tutti.

Per capire gli eSports, dobbiamo prima capire questo. Dobbiamo smettere di vedere il gaming per quello che era e imparare a vederlo per quello che è oggi, evitando questi 3 comuni errori di valutazione.


Errore 1: il gaming è roba da dodicenni


Il primo errore è considerare i videogiochi una cosa da ragazzini, come se fossero una novità assoluta.

Certo, se guardiamo oggi un torneo di Fortnite, molti campioni sono dodicenni o giù di lì. Ma è sempre stato così: i ragazzi sono i primi ad adottare le nuove forme di intrattenimento. E se parliamo di videogiochi, i dodicenni ci giocano da oltre quarant’anni. Col risultato che i dodicenni di una volta, quelli che giocavano con i primissimi titoli, poi che affollavano gli arcade, e poi che si sono comprati le console, oggi sono adulti.
2020_05_07 WEBINAR eSports

Adulti che in molti casi hanno continuato a giocare, creando oggi una platea di gamer di ogni età che condividono una stessa cultura e una comprensione degli stessi codici.


Errore 2: i gamer sono quelli strani


Il secondo errore è pensare in termini di “noi e loro”, considerando i gamer una categoria strana e incomprensibile, praticamente una setta. Per smontare questa idea basta contarli. Si stima che oggi i gamer nel mondo siano 2,4 mld, ovvero poco meno di una persona su 3. Chiaramente dentro questo calderone si va dal campione di Fortnite alla signora che gioca a Candy Crush sulla metro. Ma il numero resta impressionante.
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Per mettere le cose in prospettiva basta confrontare il numero dei gamer con quello di altri gruppi che consideriamo normalmente "numerosi". Come dire, non c’è partita. 

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Queste cifre rendono subito evidente che i gamer non possono essere considerati una minoranza. Del resto, molti di noi sono light gamer e non se ne rendono neanche conto.

 

Ma se vogliamo un’altra rassicurazione sulla natura ormai mainstream del gaming, basta guardare alla sua presenza nella cultura pop. Nel cinema, ad esempio. Non è una novità che si facciano film ispirati ai videogiochi. Nel 1995 uscì Street Fighter, con Jean-Claude VanDamme. Nel 2001 Tomb Raider, con Angelina Jolie. Sono diventati film anche Mortal Kombat, Super Mario, Double Dragon, Silent Hill, Alone in the Dark, Assassin’s Creed.

Ma è interessante guardare i voti ricevuti da questi film sul portale di recensioni RottenTomatoes: con l’eccezione di Mortal Kombat nel 1995, i film tratti da videogiochi non hanno mai superato la soglia (bassina) del 40%. Fino al 2017, quando dalla categoria degli "scarsi" si sono spostati in quella dei "sufficienti" e addirittura dei "buoni". 

Voti-Film-videogiochi

 

Forse sono film migliori. Più probabilmente, i critici sono sempre più familiari con la cultura del gaming, e magari gamer a loro volta. In entrambi i casi, è evidente come questo mondo sia sempre meno di nicchia. E lo confermano i risultati al botteghino.

Prendiamo Ready Player One, il film di Steven Spielberg del 2018. Pur non essendo tratto da un videogioco, il film è fortemente legato all’immaginario del gaming. Ready Player One è stato un successo, con quasi 600 milioni di dollari al box office e un punteggio Rotten Tomatoes del 72%.

Un’ulteriore conferma arriva da Netflix, che nel 2019 ha deciso di produrre una serie tratta da The Witcher, videogioco RPG di grande successo. Qualche anno fa sarebbe stato un titolo di nicchia. Invece si è posizionato nell’Olimpo dei titoli Netflix, insieme a Stranger Things. 

 

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Del resto, la cultura e il linguaggio dei giochi sono filtrati nel nostro quotidiano in modo così pervasivo che non ce ne rendiamo più conto. L’interfaccia con cui seguiamo la consegna del nostro hamburger ricorda in modo impressionante la minimap che ci accompagnava in tantissimi giochi. Lo stesso discorso si potrebbe fare pensando al FitBit che ci restituisce le nostre statistiche. Siamo tutti gamer nel modo di pensare. 


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Errore 3: il gaming è tutto uguale


Un altro errore che si fa spesso è quello di credere che il gaming sia un mondo indifferenziato. Nessun fenomeno di questa portata (ricordiamolo: 2 miliardi e mezzo di giocatori) può essere davvero indifferenziato.

 

Nel mondo del gaming esistono tanti stili, tante tribù, tante esigenze diverse. Chi vuole comunicare attraverso i giochi deve conoscere queste differenze per modulare i propri messaggi.

 

Una prima distinzione è quella nota come Tassonomia di Bartle, elaborata dal professor Richard Bartle della Essex University.

 

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Questa classificazione tiene conto di due fattori: la preferenza per l’azione vs la preferenza per l’interazione e il maggior interesse per gli altri giocatori vs quella per il mondo del gioco. Da qui escono quattro profili:

  • Killer: giocatori che amano eliminare e sopraffare gli altri, dimostrando così la propria superiorità
  • Conquistatori: giocatori che amano raggiungere traguardi e sbloccare ricompense all’interno del gioco
  • Socializzatori: giocatori che vedono il gioco principalmente come un modo per conoscere nuove persone e divertirsi con loro
  • Esploratori: giocatori che amano soprattutto visitare il mondo del gioco, scoprendo anche le location più nascoste

Queste quattro categorie di giocatori sono attratte da giochi diversi, ma possono anche coesistere in uno stesso gioco, interpretandolo in modo diverso. Soprattutto, ci mostrano come l’attività del gaming possa in realtà rispondere a esigenze di fondo molto diverse.

Un altro modo in cui possiamo differenziare i giochi - e soprattutto la loro audience - è lungo l’asse "passato / presente / futuro".
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  • giochi del passato (es. Street Fighter, Pokemon, Super Mario) parlano a un’audience di gamer più maturi e fanno leva soprattutto sulla nostalgia. Sono stati per molti i giochi dell’infanzia (anche se stanno tornando sotto forma di eSport). In questo caso l’attivazione del pubblico non passa più solo dal gioco attivo, ma anche dall’utilizzo in comunicazione di immagini, personaggi e simboli in grado di riaprire il cassetto dei ricordi.
  •  
  • I giochi del presente sono quelli "mimetici", in grado di replicare in modo fedele la realtà. Molto spesso si tratta di sport (FIFA, PES, GranTurismo, NBA2K). Questi giochi non richiedono allo spettatore di imparare alcunché, perché replicano l’esperienza che si potrebbe avere guardando lo sport in TV. Parlano quindi a un’audience mainstream (e non è un caso che durante la pandemia siano arrivati rapidamente in TV come sostituti degli sport ormai fermi).
  •  
  • I giochi del futuro sono quelli che ci mostrano una sorta di iperrealtà, con regole e codici del tutto nuovi (es. Fortnite). È qui che troviamo un’audience di giovani e i trendsetter, disposti ad abbracciare nuove idee e nuovi stili. Gran parte del fenomeno eSports si concentra su questi titoli.

Ed è proprio nei titoli "del futuro" che vediamo emergere un fenomeno che potrebbe cambiare tutto: il metaverso. Per metaverso intendiamo un mondo virtuale persistente e condiviso, una sorta di Web fisico in cui si può fare di tutto (quello che Second Life aveva provato a costruire).

 

Il metaverso non esiste ancora, ma giochi come Fortnite (su cui si è tenuto il concerto di Travis Scott con 27 milioni di spettatori), Animal Crossing (su cui si organizzano Late Night Shows e su cui Alexandria Ocasio-Cortez fa campagna elettorale) e Minecraft (su cui gli studenti giapponesi organizzano le proprie cerimonie di laurea) ce ne danno un assaggio. Un domani i giochi saranno luoghi, in cui potremo giocare ma anche fare molto altro. E questo potrebbe aprire opportunità di comunicazione completamente nuove.

 

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